A cura degli Avv.ti Enzo Bacciardi e Michele Sacchi – Dipartimento diritto del lavoro
Con la sentenza n. 118 del 21 luglio 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 9, comma 1, del D.lgs. n. 23/2015 (il cosiddetto Jobs Act), nella parte in cui prevedeva un tetto massimo di sei mensilità come indennizzo per i lavoratori licenziati in modo illegittimo da datori di lavoro con meno di 15 dipendenti.
Cosa cambia con questa sentenza
La decisione della Corte ha effetti immediati e rilevanti: anche i piccoli o piccolissimi datori di lavoro (compresi quelli con un solo dipendente) potranno ora essere condannati fino a 18 mensilità (e cioè la metà della soglia indennitaria massima prevista per i datori con più di 15 dipendenti) in caso di licenziamento ingiustificato di lavoratori assunti dal 7 marzo 2015. La pronuncia non riguarda i licenziamenti discriminatori o ritorsivi (già coperti da tutele più forti), ma quelli ingiustificati ai sensi dell’art. 3 del decreto.
La questione era stata sollevata dal Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Livorno, che aveva ritenuto la norma lesiva di diversi articoli della Costituzione: 3 (uguaglianza), 4 (diritto al lavoro), 35 (tutela del lavoro), 41 (libertà d’impresa) e 117 (adeguamento all’ordinamento internazionale, in relazione all’art. 24 della Carta Sociale Europea).
Perché la norma è stata dichiarata incostituzionale
La Corte ha criticato la forbice troppo esigua (da 3 a 6 mensilità), che impediva ai giudici di merito di calibrare il risarcimento in base alla gravità concreta del caso. Secondo la Consulta, questo sistema viola i principi costituzionali in quanto:
- non garantisce una riparazione adeguata in caso di perdita del lavoro;
- riduce l’efficacia deterrente della sanzione;
- non tiene conto della reale capacità economica dell’impresa, spesso non misurabile solo in base al numero dei dipendenti.
Conseguenze e criticità
Tuttavia, a nostro parere la sentenza apre anche a diverse problematiche e contraddizioni:
- Disparità tra lavoratori: chi è stato assunto da una piccola impresa prima del 7 marzo 2015, in caso di licenziamento basato su un fatto riconosciuto come sussistente ma comunque dichiarato illegittimo (ad esempio poiché il licenziamento stesso viene ritenuto sproporzionato), può ottenere al massimo un indennizzo pari a sei mensilità. Chi è stato assunto dopo tale date, ne può invece ottenere fino a 18. A parità di ingiustificatezza, cambia quindi drasticamente il trattamento indennitario.
- Disparità tra imprese grandi e piccole: un lavoratore di una grande azienda (anche con centinaia di dipendenti) potrebbe ricevere un’indennità inferiore a quella riconosciuta a un lavoratore licenziato da una microimpresa.
- Assenza di criteri oggettivi: dopo che la Corte ha dichiarato incostituzionale anche l’anzianità come unico criterio (sentenza n. 194/2018), il giudice ha oggi ampia discrezionalità nel determinare l’indennizzo. Manca una cornice normativa chiara, e la violazione dei criteri non è neppure censurabile in Cassazione.
- Rischio per le microimprese: per le realtà imprenditoriali più piccole, l’obbligo di pagare fino a 18 mensilità potrebbe rappresentare un peso insostenibile, generando instabilità in un settore già fragile.
Il monito al legislatore: servono nuove regole
La Corte Costituzionale ha evitato di riscrivere in modo profondo la normativa, ma ha comunque richiamato con forza il legislatore a intervenire. Ha suggerito che, oltre al numero di dipendenti, debbano essere considerati anche altri fattori come fatturato, bilancio aziendale e organizzazione dell’impresa, in linea con gli orientamenti europei.
La Consulta ha riconosciuto che il bilanciamento tra adeguatezza del ristoro e sostenibilità economica spetta al legislatore, sottolineando però che ulteriori ritardi non sono più tollerabili. È necessario un riordino organico e coerente della disciplina dei licenziamenti, che garantisca equità, certezza del diritto e sostenibilità.
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